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Autostima: come si costruisce?
AUTOSTIMA: come si costruisce?
Come si forma nei bambini? E perchè gli adulti sono tanto importanti nella costruzione dell’autostima?
Sapete quali strategie utilizzare per favorire uno sviluppo sano?
E da adulti cosa succede?
Lo sguardo degli altri (genitori, nonni, insegnanti) aiuta a costruire l’immagine che il bambino ha di se stesso.
Nello specifico qual’è il compito dei genitori? Le iniziative del bambino vanno sostenute con curiosità, ridere ai suoi scherzi, lodare le sue conquiste, lasciare che il bambino commetta errori senza ricorrere a punizioni eccessive e fornire spiegazioni sul comportamento da adottare quando se ne vieta un’altro.
E in adolescenza cosa succede? Per fortuna la partita è ancora aperta ed è ancora possibile intervenire positivamente sull’autostima. Nuove esperienze rimettono in gioco l’immagine costruita finora, nel bene ma anche nel male.
E, infine, da adulti? L’immagine di se è consolidata ed eventi importanti possono influenzare l’autostima in modo positivo e negativo. Un fallimento lavorativo o sentimentale o una buona psicoterapia possono aiutare ad affrontare momenti difficili.
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Assertività: cosa vuol dire e come migliorarla
Cosa vuol dire essere assertivi?
l’assertività è un aspetto del nostro carattere che influenza molto in nostro benessere e le relazioni sociali.
Innanzitutto essere assertivi significa esprimere in modo diretto emozioni, esigenze ed opinioni personali.
Come si fa? E’ necessario trovare equilibrio tra aggressività e passività. i comportsmenti aggressivi cercano di soddisfare le nostre esigene ad ogni costo, fino a compromettere amicizie e relazioni. Viceversa un comportamento passivo porta a mettere da parte i propri bisogni davanti ad una situazione troppo difficile.
Perchè è importante essere assertivi? Perchè tutte le relazioni sociali che noi intrecciamo quotidianamente con gli altri richiedono comportamenti di mediazione tra noi e gli altri.
Come migliorare l’assertività? Imparare ad individuare le situazioni in cui ci si sente in difficoltà, individuare con precisione le persone con le quali non si riesce ad essere assertivi e allenarsi ad usare strategie nuove per affrontare in modo diverso le situazioni difficili.
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EMERGENZA SANITARIA: COME GESTIRE LA PAURA
L’emergenza sanitaria che il Covid-19 ha provocato non è solo di tipo sanitario ma anche psicologico, causando reazioni emotive intense e, a volte, incontrollabili.
La situazione che stiamo vivendo è nuova e può turbare profondamente a causa delle limitazioni che ci sono state imposte e per la pericolosità del virus. Siamo costantemente attivati, pronti per rispondere ad un pericolo che potrebbe colpirci da un momento all’altro, senza neanche sapere da che parte possa arrivare. Il nostro sistema nervoso è quindi in costante attivazione, pronto a difenderci.
Il cambiamento di comportamento che ci è stato imposto a livello sociale genera preoccupazione, vulnerabilità, isolamento e sensazione di non avere più il controllo sulla nostra vita. Prima di passare ai suggerimenti per imparare a gestire la paura è necessario comprendere innanzitutto come il nostro corpo agisce per difenderci.
Nel corso dell’evoluzione l’uomo ha imparato a reagire ad una situazione distress o di pericolo in tre modi:
- Immobilizzazione
- Mobilitazione
- Ingaggio sociale
Immobilizzazione: il modo più antico di reagire davanti ad un pericolo al di fuori di noi è immobilizzare il nostro corpo. Così possiamo scegliere una immobilizzazione molto simile ad una morte simulata dove il nostro corpo sceglie lo spegnimento con sensazioni di impotenza, disperazione e minore reattività emotiva. Ci sentiamo deboli, senza energia e voglia di fare. Oppure possiamo scegliere l’immobilizzazione con iperattivazione e sentirci come congelati ma con un’energia dentro di noi che appare bloccata.
Mobilizzazione: in questo caso il nostro corpo è attivato grazie al sistema nervoso simpatico. Di fronte ad un pericolo (nel nostro caso collettivo) reagiamo mobilizzando il nostro sistema “attacco- fuga”. In questa emergenza le risposte di fuga sono state le più frequenti. In molti hanno sentito il bisogno di “fuggire” da casa o, semplicemente, di muoversi. Le risposte di attacco, invece, possono aumentare il bisogno di controllo, l’irritabilità e la reazioni di rabbia.
Ingaggio sociale: richiama una situazione in cui ci sentiamo al sicuro, dove sono garantite le condizioni necessarie di sopravvivenza. Probabilmente è la forma più evoluta per gestire una situazione di pericolo. L’ingaggio sociale ci mette in comunicazione con l’altro, permette di aumentare la sensazione di ancoraggio e diminuisce quella di isolamento. Così come per la mobilizzazione anche l’ingaggio sociale, in questi giorni, ha subito importanti limitazioni. Ecco perché sono consigliate tutte le forme di comunicazione virtuale (skype, videochiamate, whatsapp) che permettano uno scambio visivo attraverso il video. È importante soprattutto vedere i nostri amici e parenti affinché possiamo sperimentare quel senso di sicurezza che deriva dalla connessione reciproca.
Ora che siete a conoscenza di come il vostro corpo reagisce al pericolo, siete pronti per mettere in atto veloci ed efficaci suggerimenti per gestire la paura.
Trovate un rifugio sicuro. Rimanere chiusi in casa può farci sentire in trappola. Per questo motivo è importante trovare un posto dove vi sentite al sicuro. Può essere la stanza da letto, la camera dei vostri figli, un angolo di giardino o il divano. Una volta trovato, osservate le caratteristiche che più vi fanno stare bene. Può essere un oggetto, un odore oppure un colore. Soffermatevi su una caratteristica alla volta e notate il modo in cui vi trasmette sicurezza o, magari, calma. Il corpo può reagire e diminuire la tensione. Il respiro può farsi più regolare e lento, le tensioni nel corpo diminuiscono, il cuore riprende a battere regolarmente e, forse, vi ritrovate a sorridere. Mettete da parte tutti i pensieri e ancoratevi a queste piacevoli sensazioni corporee.
Riconoscere risposte corporee di iper e ipo-attivazione. Semplicemente è importante capire se il nostro corpo sta reagendo attivandosi (sudate, respirate velocemente, il battito cardiaco è accelerato, parlate velocemente, vi guardate intorno come in cerca di un pericolo) o si sta spegnendo per proteggersi (sentite la testa come vuota, il respiro è lento, battito cardiaco rallentato, la voce bassa, gli occhi semichiusi).
Riprendete contatto con la realtà. L’orientamento è la prima cosa che permette di ritrovare la calma. È necessario che il nostro cervello capisca che intorno a noi non c’è pericolo. Osservare quello che è intorno a noi ci aiuta a riprendere contatto con la realtà. Guardatevi intorno e riprendete contatto con lo spazio che vi circonda. La vostra mente registrerà che non ci sarà più nessun pericolo e il vostro corpo smetterà di reagire come se dovesse affrontare da un momento all’altro un pericolo!
Regolare l’iper-attivazione: ridurre la tensione e regolare il respiro. Osservate quali parti del vostro corpo sono in tensione e cercate di rilassarle il più possibile. Alternate la sensazione di tensione a quella di rilassamento.
Regolare l’ipo-attivazione: aumentare la tensione e regolare il respiro. Il secondo modo che il nostro corpo ha di reagire ad un pericolo è quello dell’ipo-attivazione. Il nostro sistema nervoso tende a ridurre al minimo le batterie. Si possono percepire le spalle molto pesanti, il respiro e i movimenti diventano lenti e il cuore riduce i suoi battiti. Questa condizione affatica molto anche senza aver fatto niente, accompagnandosi ad un tono dell’umore molto basso o alla sensazione di voler piangere. Per contrastare lo spegnimento e la sensazione che il vostro corpo venga schiacciato verso il basso dovete attivarvi! Osservate quali parti del vostro corpo hanno meno tonicità e cercate di contrarre i muscoli per aumentare la tensione. Accompagnate questo esercizio con respirazioni lente ed espirazioni corte e veloci. Lentamente sentirete una maggiore forza nel vostro corpo.
In questi giorni la cosa più importante è riuscire ad avere una buona osservazione su noi stessi per ritrovare la calma necessaria per lasciare fuori dalla porta la paura!
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🗣VADEMECUM PSICOLOGICO: come affrontare l’ansia da CORONAVIRUS
Condividendo con voi che in questi giorni è difficile mantenere un equilibrio psicologico di fronte a quanto sta accadendo, consiglio di seguire queste indicazioni che il Consiglio Nazionale degli Psicologi ha inviato a tutti gli psicologi e alle farmacie per informare e formare la cittadinanza.
Dott.ssa Sara Coppola
347-051 34 22
1) LA GIUSTA PAURA
Se sottovaluti il pericolo: metti a rischio te stesso e gli altri adottando comportamenti che espongono al rischio
Se sopravvaluti il pericolo: molta paura e poca efficenza. Si perde di vista ciò che rappresenta il vero pericolo.
2) ATTENERSI AI FATTI
Le misure collettive (e da oggi nazionali) sono un modo per CONTENERE il contagio. MISURE COLLETTIVE non equivale a maggiore pericolo per tutti. E’ uno strumento di PREVENZIONE DEL RISCHIO
3) NIENTE PANICO!
Il panico porta ad ignorare i dati oggettivi e la nostra capacità di giudizio diminuisce e ci porta a fare scelte sbagliate e rischiose, come ignorare semplici regole protettive.
4) CONTENIAMO LE EMOZIONI
Troppe emozioni impediscono la giust analisi del fenomeno.
Cerchiamo il giusto equilibrio tra il sentimento di paura e il rischio oggettivo.
5) NESSUNO E’ INVULNERABILE
Sentirsi invulnerabili: espone al rischio perchè fa sottovalutare il reale pericolo
Ricercare l’invulnerabilità: rende estremamente paurosi e incapaci di affrontare il futuro, alimentando emozioni negative controproducenti
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LA CONDIVISIONE SUI SOCIAL
LA CONDIVISIONE SUI SOCIAL: cosa ci spinge a condividere?
Oggi la pratica della condivisione sui social, definita tecnicamente sharing, è ampiamente diffusa tra chi utilizza i social network.
Ma perché è così importante condividere?
Iniziamo dicendo che la condivisione ci permette di esprimerci e di ottenere in modo rapido un riconoscimento da parte della comunità. Il riconoscimento è fondamentale perché ci permette di acquisire un posto all’interno di un gruppo, ottenendo una certa visibilità. È come alzare la mano ed esprimere la propria opinione!
I PRINCIPALI MOTIVI PER CUI CONDIVIDIAMO
Il riconoscimento non è l’unico motivo per cui siamo portati a condividere sui social. Esistono, infatti, altre motivazioni, se vogliamo più specifiche e anche personali. Vediamo quali sono:
- Attirare l’attenzione su un determinato argomento
Quando abbiamo un argomento che ci sta particolarmente a cuore vogliamo che più persone siano informate. Quale metodo migliore e più rapido di una condivisione su un social network? In pochi minuti tutti i nostri amici e conoscenti saranno informati su quello che vogliamo, semplicemente attraverso un click!
- Divulgare notizie importanti per la comunità o scambiarsi informazioni utili
Su Facebook sono ormai numerosi i gruppi dove poter trovare informazioni. Da quelli per le neo mamme alle community di professionisti di vario genere. Anche qui la scelta di aprire il social network e scrivere un rapido messaggio è la scelta più ovvia. La rapidità con cui è possibile chiedere ed ottenere informazioni è indiscutibile anche se, a volte, ci affidiamo con troppa facilità a quello che leggiamo dimenticandoci di controllare effettivamente la correttezza di ciò che ci viene detto. Quindi meglio consigli veloci o affidabili?
- Definire se stessi esprimendo i propri interessi e ciò che è importante per noi
I social sono diventati la nuova modalità con cui costruire la nostra identità. Per questo motivo condividiamo contenuti importanti per noi e che riflettono i nostri interessi. È un modo di raccontarsi, di definire chi siamo e cosa ci piace.
- Condividere emozioni
Facebook lo sa bene ed è per questo che permette di esprimere, ad ogni condivisione, il proprio stato emotivo. Ti chiede a cosa stai pensando, come stai o come sei stato in un particolare momento. Siamo informati su come sta un nostro amico ma la partecipazione emotiva e il coinvolgimento non passano attraverso uno schermo o la condivisione di uno stato.
- Restare connessi con gli altri
Condividere, anche se solo virtualmente, crea legami e connessioni con gli altri facendoci sentire meno soli.
QUANTO E’ IMPORTANTE CONDIVIDERE SUI SOCIAL?
Anche se non amo particolarmente l’utilizzo dei social per creare relazioni e legami ne comprendo l’importanza al giorno di oggi. Per i più giovani i social network sono la loro realtà quotidiana, la loro “piazza” dove sperimentarsi e trovare la loro identità. È quindi giusto che imparino anche questo tipo di comunicazione. Certamente è opportuno non dimenticare la relazione diretta tra le persone, il coinvolgimento senza filtri o schermi, la condivisione di emozioni e stati d’animo a parole e guardandosi negli occhi. È importante insegnare entrambe le forme comunicative in modo tale da avere a disposizione due canali attraverso cui scegliere di comunicare. Restiamo connessi ma non distanti!
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Quando il silenzio entra nella stanza d’analisi
Articolo pubblicato in versione integrale sulla rivista Psyche Nuova, CISSPAT 2017-18 pag.117-123.
In occasione dell’ultima pubblicazione sulla Rivista CISSPAT Psyche Nuova, analizzo e approfondisco il tema del silenzio. Nello specifico verrà analizzato il ruolo che svolge nell’incontro tra paziente e terapeuta.
Riflettere sul silenzio implica addentrarsi all’interno di decine di significati e interpretazioni, fornite da numerosi psicoterapeuti, filosofi e poeti. Il silenzio è soprattutto ascolto che, in questa forma, ci ricorda quanto sia importante fermarsi e tacere quando necessario. È forma di comunicazione attraverso la quale si esprimono stati affettivi interni intensi, sia negativi che positivi. E’, inoltre, ostacolo o facilitatore alla comunicazione verbale. La molteplicità di significati e interpretazioni legate al silenzio richiedono, nella relazione terapeutica, un costante lavoro interpretativo. Questo rende evidente l’importanza che il silenzio riveste all’interno della comunicazione tra paziente e terapeuta e il motivo per cui gli psicoanalisti, insieme ai filosofi e ai poeti, sono quelli che si sono occupati maggiormente del silenzio. Attribuire il giusto significato e imparare ad utilizzare il silenzio in modo costruttivo offre la possibilità di far progredire e maturare la terapia in modo costruttivo, aiutando nell’insieme l’intero processo di cura.
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Due chiacchiere con lo psicologo: 10 domande che nessuno fa
Chi pensa di chiedere un sostegno psicologico molto spesso è fermato da domande e dubbi che non trovano una risposta. Questi interrogativi lasciano confusi e portano la persona a rinunciare, abbandonando completamente la possibilità di fare qualcosa per stare meglio, convincendosi erroneamente che al più presto quel malessere passerà. È naturale porsi domande di questo tipo ed è legittimo conoscere qualcosa del percorso che si sta per intraprendere.
Cosa significa “fare psicoterapia”?
Per dare una risposta che si avvicini il più possibile alla verità, è necessario pensare alla psicoterapia come ad un viaggio, dai confini non sempre definiti. Un percorso dove è possibile dare voce a esperienze emotivamente intense e dove poter trovare un’atmosfera di rispetto, fiducia, accoglimento e comprensione. Un percorso di crescita che non ha un tragitto definito a priori ma che può essere modificato durante il suo svolgimento e interrotto in qualsiasi momento il paziente lo senta necessario.
I percorsi di terapia sono tutti uguali?
No, ci sono orientamenti e tecniche diverse. L’approccio psicodinamico si concentra sul mondo interiore della persona che, per dare significato agli stati di sofferenza, parte dalla storia di vita. Inoltre cerca di dare voce alle emozioni che possono essere state rimosse o risultare inconsapevoli. Nell’approccio sistemico relazionale, invece, l’attenzione del terapeuta non è rivolta al mondo interno ma alle relazioni. La sofferenza della persona è considerata portavoce di un disagio più allargato che si manifesta all’interno di questo sistema relazionale. Infine, approcci come il cognitivo- comportamentale e lo strategico breve agiscono differentemente perché utilizzano metodi basati su tecniche rivolte alla gestione e contenimento del disagio. Ma, al di là dello specifico modello di intervento, tutti gli approcci condividono alcuni aspetti:
- Atteggiamento di cura e attenzione verso il paziente
- Ascolto non giudicante
- Libera espressione dei vissuti
- Lettura differente della realtà
- Segreto professionale
La scelta dello psicologo e dello specifico approccio è, però, solo secondario allo sviluppo di una buona relazione e alleanza terapeutica. Avere fiducia nello psicologo e trovare una buona sintonia faciliterà il dialogo, l’espressione del disagio e, di conseguenza, la cura.
Poltrona o lettino?
Quando si parla di psicologia come non pensare a Freud e al suo famoso lettino? Considerata la sua grande influenza è naturale associare la terapia psicologica con l’uso del lettino, al punto tale da immaginare che quello sia l’unico setting utilizzato. Le cose sono molto cambiate e anche se alcuni psicoterapeuti che seguono il modello di terapia freudiano possono utilizzare ancora il lettino, la maggior parte degli psicoterapeuti con diverso orientamento lavorano utilizzando un setting vis à vis (faccia a faccia).
Quindi, cosa troverete in uno studio di psicoterapia?
La disposizione più frequente è quella di due poltrone (il più possibile comode, sia per il paziente che per il terapeuta!) disposte una di fronte all’altra e leggermente inclinate. Questo tipo di posizione permetterà al paziente sia di guardare il terapeuta negli occhi che di evitare il suo sguardo quando non se la sentirà.
Lo psicologo può davvero risolvere i miei problemi?
Lo psicologo non dà la soluzione ad un problema. Questo perché ogni persona possiede una spinta innata alla realizzazione di se stessa e all’espressione delle proprie potenzialità. Il disagio porta la persona a rinunciare a questa naturale crescita che adotta comportamenti di difesa nei confronti della vita. Lo psicologo, quindi, dovrà aiutare a rimuovere gli ostacoli che bloccano la strada per lo sviluppo di una personalità matura e realizzata. Una volta che gli ostacoli saranno rimossi, le forze di autorealizzazione innate riprenderanno a funzionare.
Per rimuovere questi ostacoli e aiutare il paziente a superare disagi e difficoltà lo psicologo potrà:
- Chiarire e focalizzare il problema
- Dare sostegno
- Condividere empaticamente i vissuti
- Offrire contenimento
- Individuare attivare risorse personali
- Permettere un’esperienza emotiva-correttiva
- Favorire il riconoscimento delle emozioni
Chi è lo psicologo e come lavora?
Per prima cosa lo psicologo/psicoterapeuta non è uno psichiatra e per questo motivo non può prescrivere farmaci. Può in alcuni casi, consigliare una terapia farmacologica che necessariamente deve essere prescritta dallo psichiatra.
Psicologo e psicoterapeuta sono “compagni di viaggio”, ascoltatori liberi da pregiudizi che accolgono tutto ciò che per la persona è emotivamente insopportabile. Come dei contenitori forti e resistenti accolgono quello che la persona non è in grado di sopportare, per poter poi avviare un processo di metabolizzazione e attribuzione di significato alle esperienze emotive vissute. Questo permette di affrontare la vita senza la necessità di rimuovere o negare ciò che può far paura o creare difficoltà. In questo modo la persona scopre risorse di cui non era consapevole, che la rendono più forte e in grado di affrontare gli inevitabili ostacoli della vita.
Ma come lavora lo psicologo? Se necessario lo psicologo, oltre al dialogo, potrà ricorrere all’utilizzo di tecniche specifiche apprese nel corso della sua formazione. Seguendo il proprio modello teorico potrà utilizzare strumenti per fare diagnosi, test per la valutazione della personalità o per indagare la presenza di ansia o depressione. Alcuni terapeuti utilizzano tecniche per accelerare la terapia o per superare la naturale resistenza che si crea in alcuni momenti particolari del processo terapeutico. L’utilizzo dell’immaginazione e l’interpretazione dei sogni sono un esempio di ciò che un terapeuta, con formazione dinamica, potrebbe utilizzare.
Tecniche di rilassamento come il training autogeno possono essere utilizzate per superare alcuni momenti di tensione nella terapia oppure possono essere apprese dal paziente come risorsa per le proprie difficoltà al di fuori di essa.
Domani chiamerò….forse!
Quando è il momento giusto per prendere un appuntamento?
Quando ci si trova in difficoltà, è come se il momento giusto per iniziare una terapia non arrivasse mai. Molte persone non capiscono come uno psicologo possa essere d’aiuto, provano un senso di fallimento dovuto all’idea di non esser riusciti a risolvere i loro problemi solo con le proprie forze. Aspettare troppo fa aumentare le difficoltà mentre la forza e le risorse che potrebbero aiutare la persona ad affrontare e superare un momento difficile diminuiscono giorno dopo giorno. Chiedere di essere aiutati non significa essere deboli, anzi è un atto di forza così come lo è diventare consapevoli di essere di fronte ad un problema per cui non si hanno gli strumenti necessari per superarlo.
Quante sarà lunga la terapia?
Non è possibile stabilire a priori la durata della terapia. Si possono individuare obiettivi specifici (chiamati “focus”) che, una volta raggiunti, possono dare fine alla terapia. E’ bene ricordare, però, che durante il percorso gli obiettivi cambiano e si modificano o se ne aggiungono altri. Questo non significa che la terapia durerà per sempre ma soltanto che la sua durata dipenderà dalla persona e da ciò che vorrà raggiungere. Molti pazienti che concludono una terapia chiedono se potranno ritornare se ne avranno ancora bisogno. La maggior parte dei terapeuti danno la loro disponibilità. La terapia è come un viaggio che può iniziare e terminare senza sosta, avere delle pause o interrompersi quando lo si desidera.
La terapia mi cambierà per sempre?
Non è corretto affermare che la terapia cambia le persone. Quello che succede, invece, è individuare le risorse e i punti di forza che ognuno ha già dentro di sé. A volte è sufficiente sentire di avere vicino una persona che sappia accogliere e contenere ciò che può far paura ed essere ascoltati senza giudizio. Quando, invece, l’origine del malessere è sconosciuta la terapia guiderà la persona in un percorso di maggiore consapevolezza e comprensione che porterà, con il tempo, al superamento dei sintomi e del disagio.
Se vado dallo psicologo vuol dire che sono matto?
Sussiste ancora oggi il pregiudizio che rivolgersi ad uno psicologo significhi essere “matti”. La malattia mentale è un disturbo psicologico grave di cui si occupa un ramo della psicologia, ma non è certo l’unico.
Andare in terapia significa essere aiutati a risolvere problemi di coppia, in famiglia, con i figli o a superare ansie o disturbi più gravi come la depressione. Qualsiasi persona senta il bisogno di migliorare o chiarire aspetti della sua vita può ricorrere ad uno psicologo.
Quello che dirò rimarrà segreto?
Dal Codice deontologico dello psicologo, Articolo 11: “ Lo psicologo è strettamente tenuto al segreto professionale. Pertanto non rivela notizie, fatti o informazioni apprese in ragione del suo rapporto professionale, né informa circa le prestazioni professionali effettuate o programmate (…)”.
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LA VITA SENZA GIGA: i sintomi della disconnessione
Avete mai immaginato come sarebbe un solo giorno senza internet? Come sarebbe non poter accedere a Facebook, Whatsapp o Instagram?
Siamo talmente tanto abituati ad essere “collegati”, da non prendere neanche in considerazione cosa possa significare trascorrere anche una sola ora senza internet. Essere collegati a internet è diventato un aspetto della nostra quotidianità, al punto tale da essere considerato essenziale. Per evitare di rimanere scollegati mettiamo in atto tutta una serie di precauzioni, per evitare di trovarci in una situazione di disconnessione: ci portiamo dietro il carica batterie anche solo per mezza giornata, ci procuriamo apparecchi per poter ricaricare il telefono anche senza fili, andiamo in cerca delle wi-fi quando siamo in luoghi pubblici o siamo a corto di giga.
Quali situazioni ci mettono a rischio di disconnessione?
Basta poco. La batteria esaurita, un guasto improvviso o il trovarsi in una zona che non ha una copertura internet. Anche il rimanere molto tempo lontano dal telefonino o dal computer possono essere situazioni difficili da gestire.
Quindi, cosa può accadere quando ci troviamo senza smartphone e/o internet?
Una sensazione di panico vi assale se avete dimenticato lo smartphone a casa? La maggior parte delle attività quotidiane le fate con lo smartphone a portata di mano?
Non essere più in contatto, con la rete e/o con i principali social network, può determinare una sintomatologia simile a quella dell’attacco di panico, variabile per intensità a seconda dei casi.
E’ possibile che si presentino:
- mancanza di respiro
- vertigini
- tremori
- Sudorazione
- battito cardiaco accelerato
- dolore al torace
- nausea
Potreste anche non riuscire a resistere per più di dieci minuti senza controllare le notifiche del vostro cellulare o pensare che stia squillando quando invece non è così. Questi sintomi sono dei segnali che, se presenti, sono un invito a riconsiderare il tuo rapporto con il cellulare e la rete.
Un nuovo tipo di fobia?
Per descrivere il fenomeno della disconnessione si usa il termine di “Nomofobia” (o Sindrome da Disconnessione). Il termine è formato dalla parola anglosassone no-mobile e dalla parola fobia che si traduce con “paura di rimanere fuori dal contatto di rete mobile”.
In caso di nomofobia si può avere la sensazione di perdersi qualche cosa se non si controlla costantemente il cellulare. Il rischio di questo tipo di comportamento è che s’inneschi un meccanismo di dipendenza, fino a diventare qualcosa di cui non ci si rende più conto. L’attaccamento allo smartphone condivide lo stesso principio che sta alla base di tutte le altre dipendenze: si crea un’alterazione nella produzione della dopamina, un neurotrasmettitore coinvolto in diverse funzioni cerebrali, tra cui la regolazione del comportamento.
Per controllare la paura di “perdersi qualcosa” o di rimanere scollegati la persona potrebbe mettere in atto una serie di comportamenti disfunzionali.
Ad esempio:
- stare al telefono molto tempo
- aspettare con ansia la risposta dell’altro (e magari sollecitare la risposta se tarda ad arrivare)
- vedere cosa accade agli amici attraverso i social network
- commentare, condividere
- non spegnere mai il cellulare, neanche di notte
- svegliarsi di notte per controllare il cellulare per rassicurarsi che non sia cambiato niente
- portarsi lo smartphone in luoghi poco appropriati (chiesa, bagno) o sentire la necessità di controllarlo in situazioni che non lo richiedono (cinema)
Quali sono le cause?
L’abitudine a essere tutti connessi e raggiungibili ha aumentato il nostro senso di sicurezza ma, contemporaneamente, ci ha reso anche più fragili. Grazie alla rete possiamo raggiungere persone e/o merci dall’altra parte del mondo, rendendole disponibili in tempi molto brevi. In questo modo ogni nostra richiesta è soddisfatta, se tutto va a buon fine. Quando la risposta, invece, tarda ad arrivare la frustrazione aumenta e noi ci troviamo sprovvisti per affrontarla. Così, difronte alla spunta di Whatsapp che non diventa blu ci preoccupiamo in modo spropositato, incalzando con altri messaggi per sollecitare una risposta da parte dell’altro in modo tale da colmare la nostra paura della solitudine e soddisfare il nostro bisogno di sicurezza.
Mettetevi alla prova
Prendetevi cinque minuti per chiedervi qual è il vostro rapporto con lo smartphone e la rete.
Iniziate a rispondere a queste semplici domande. Potreste rimanere sorpresi anche solo se vi fermate a chiedervi qual è la prima cosa che fate appena svegli la mattina. Se la risposta è controllare il telefono, allora il mio invito è di riconsiderare il rapporto con lo smartphone e la rete e chiedervi cosa significa per voi “essere connessi”.
- Appena sveglio: telefono o colazione?
- Quante volte controlli il cellulare prima di iniziare a lavorare?
- Spegni il cellulare o la connessione di notte?
- Quanto tempo riesci a stare senza controllare il cellulare?
- Hai bisogno di controllare il cellulare quando sei in compagnia di amici?
- Cosa provi se non puoi controllare il telefono?
Alcuni consigli
Il mio consiglio non è di eliminare né lo smartphone né i social network. Viviamo nella società di internet e, ormai, vita sociale e lavorativa passano anche attraverso questi canali.
Come mantenere allora un rapporto equilibrato con questi strumenti?
Basta seguire alcune semplici regole:
- Monitorate il vostro comportamento;
- Concedetevi dei momenti in cui poter stare senza telefonino;
- Di notte: spegnete il cellulare o staccate almeno internet;
- Silenziate le notifiche se dovete lavorare o volete concedervi una pausa e “non essere disturbati”;
- No al telefono a tavola: favorite le relazioni reali a quelle virtuali;
Buona connessione a tutti!
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HIKIKOMORI: adolescenza interrotta
Chi sono gli Hikikomori?
Il termine Hikikomori, utilizzato per la prima volta nel 1998 dallo psichiatra giapponese Tamaki Saito, letteralmente significa “isolarsi”, “stare in disparte”, “ritirarsi” ed è utilizzato per indicare una condizione di ritiro sociale adottata da adolescenti e giovani adulti per lunghi periodi di tempo (mesi oppure anni). In Giappone il fenomeno è ampiamente diffuso, arrivando ad interessare ad oggi circa l’1% di tutta l’intera popolazione.
In Italia, nonostante questo sia un fenomeno ancora relativamente sconosciuto, negli ultimi anni sta aumentando l’attenzione e il livello di allerta. Solo una decina di anni fa s’incominciava a sentir parlare di un fenomeno molto simile, definito con il termine di “ritiro sociale”, presentandosi come uno stile adolescenziale completamente nuovo rispetto al passato. L’Hikikomori, quindi, non è una condizione esclusivamente giapponese ma sembra interessare anche il nostro paese, così come tutti quelli economicamente sviluppati. Il tasso di Hikikomori stimato in Giappone si aggira intorno ai 500.000 casi, mentre in Italia le cifre (non ufficiali) si aggirano intorno ai 100.000. Ad ogni modo questo fenomeno, di cui è difficile dare una stima precisa, incomincia ad occupare le pagine dei giornali dimostrando, quindi, che qualcosa sta cambiando.
Dai primi segnali al totale isolamento: i tre periodi dell’Hikikomori
Data la grande rilevanza che il fenomeno dell’Hikikomori riveste in Giappone, il governo giapponese ha individuato alcuni criteri per diagnosticare con maggiore precisione la condizione degli Hikikomori.
Il primo sintomo è la presenza di un ritiro completo per un periodo maggiore ai 6 mesi, associato ad un rifiuto scolastico e/o lavorativo e ad un abbandono delle relazioni sociali (mancanza di amici e assenza di interesse per l’altro sesso). Per porre diagnosi è necessario escludere patologie di tipo psichiatrico, schizofrenia o ritardo mentale.
Adottando una visione meno rigida e categoriale è possibile guardare a questo fenomeno come ad un processo che porta la persona sempre di più ad isolarsi completamente, andando così a determinare la condizione di Hikikomori. Le fasi non sono da intendersi statiche e definite, ma vanno lette come un continuum dinamico, che può determinare alternanza tra i vari periodi: fasi di stabilizzazione, regressioni, ricadute o miglioramenti.
Primo periodo: tendenza inconsapevole all’isolamento
L’adolescente hikikomori incomincia a percepire in maniera inconsapevole la tendenza a volersi isolare dalla società, vivendo una condizione di malessere quando è costretto a relazionarsi con altre persone. Inizia, quindi, a provare ansia in tutte le situazioni di tipo sociale, trovando sollievo solo nella solitudine. Poiché in questa prima fase c’è ancora il tentativo di contrastare il desiderio d’isolamento, l’hikikomori mantiene ancora le attività sociali che richiedono un contatto con il mondo esterno, nonostante provochino un malessere che lo spinge a preferire relazioni di tipo virtuale.
Questo stadio è caratterizzato da comportamenti che tendono al ritiro, anche se in forma ancora attenuata:
- rifiuto occasionale di andare a scuola. L’assenza è giustificata da qualsiasi motivazione.
- abbandono progressivo di attività che richiedono un contatto con il mondo esterno (attività sportive, luoghi di aggregazione giovanile)
- graduale inversione del ritmo sonno-veglia
- preferenza per attività solitarie (videogames, visione eccessiva di serie TV, utilizzo del PC)
Secondo periodo: consapevolezza dell’isolamento
La tendenza all’isolamento e al ritiro diventa più consapevole. Questo significa che l’hikikomori ricerca in maniera più attiva e volontaria l’isolamento e ne attribuisce razionalmente la causa a determinate relazioni o situazioni sociali. Quindi, cominciano a presentarsi i rifiuti alle varie proposte di uscita da parte degli amici, aumentano le assenze a scuola, il ritmo sonno- veglia comincia a subire un’inversione e la maggior parte del proprio tempo è trascorsa nella propria stanza. Gli unici contatti sociali sono limitati quasi esclusivamente a quelli virtuali, mantenuti attraverso il web utilizzando chat, forum o giochi on line. Il rapporto con i familiari è ancora presente, anche se molto spesso è conflittuale.
Terzo periodo: isolamento totale
C’è il completo abbandono all’isolamento sociale, all’allontanamento progressivo anche dai genitori e dalle relazioni sviluppate attraverso la rete che diventano, anche queste, fonte di grande malessere. A questo punto il rischio che si sviluppi una psicopatologia ( per esempio depressione) è molto alto.
Le cause: esposizione e inadeguatezza
Le possibili cause che determinerebbero la condizione di hikikomori possono essere di tipo caratteriale, scolastiche e sociali.
I ragazzi hikikomori sono intelligenti ma anche particolarmente introversi, sensibili e, a volte, mostrano difficoltà relazionali. Con queste caratteristiche sono particolarmente sensibili alle inevitabili difficoltà e delusioni della vita. A livello scolastico è stato osservato che, in alcuni casi, è presente una storia di bullismo che ha facilitato la condizione d’isolamento.
Infine, la variabile del contesto sociale sembra essere quella che determina la maggiore influenza sull’incidenza di questo fenomeno. Gli esperti parlano di un cambiamento della società, che da “edipica” si è trasformata in “narcisistica”. Lo psicoterapeuta Antonio Piotti spiega come nella società siano andati scomparendo gradualmente una chiara definizione dei ruoli, il senso di colpa, la punizione e tutto ciò che rientra nella definizione di “Super Io” ovvero l’interiorizzazione di codici di comportamento basati su una determinata morale.
Quindi non c’è più un “Io” ma un’“ideale dell’Io”, la colpa scompare per lasciare il posto alla vergogna. La vita si basa sull’esposizione di se stessi e del proprio corpo che deve corrispondere ad una immagine ideale favorita e richiesta dalla società stessa. Per essere accettati e appartenere al proprio contesto sociale bisogna essere adeguati. Tutto questo, in adolescenza, assume un peso notevole perché i ragazzi sono in crescita e, il cambiamento, sia a livello mentale che fisico, è un passo delicato da affrontare. L’esposizione del proprio corpo è, oggi, fondamentale. Il ritiro degli hikikomori è un sottrarre il proprio corpo alla società e un soccombere sotto il peso dell’inadeguatezza a diventare adulti.
Hikikomori e internet: una relazione patologica?
Uno dei primi pensieri quando si parla di hikikomori riguarda il ruolo che le nuove tecnologie hanno sullo sviluppo di questa condizione e sul suo andamento nel tempo. La “rete”, così come spesso è chiamata, subisce duri attacchi trovando in essa un ottimo capo espiatorio. Ma è necessario adottare un cambiamento di prospettiva. Dai diversi studi che sono stati fatti, dove si sono rilevate situazioni di ritiro anche senza un accesso a internet, è emerso come la causa dell’isolamento degli hikikomori non è la “rete”. Il ricorso alla “rete” rappresenta, piuttosto, la conseguenza dell’isolamento. Internet e le nuove tecnologie diventano una difesa (anche dal rischio suicidio) e una possibilità di fuga. Inoltre la “rete” offre una possibilità relazionale alternativa che li protegge dalla necessità di esporsi con un corpo che considerano inadeguato e inutile.
Cosa fare?
Tutti i genitori, di fronte al proprio figlio che gradualmente si ritira e inevitabilmente si dirige verso il totale isolamento, si chiedono cosa possono fare. Nella maggior parte dei casi mettono in atto interventi volti ad interrompere violentemente il mondo che l’hikikomori si è andato gradualmente costruendo e a favorire il ritorno nella società con il divieto di utilizzare internet e costringendo il ragazzo ad uscite “forzate”. Questo intervento, basato sulla visione della “rete” come la causa di tutto, non è risolutivo e può determinare un aggravamento della situazione. Gli esperti consigliano, invece, di riformulare il rapporto con il proprio figlio, includendo la nuova modalità adottata per entrare in relazione. E’ bene chiedersi cosa fanno questi ragazzi sulla “rete” e mostrarsi interessati. I genitori dovrebbero accettare di ricreare una relazione all’interno della rete e imparare ad usarla come pretesto di conversazione per incominciare a creare un nuovo rapporto con il proprio figlio. La creazione di un nuovo tipo di rapporto è la base necessaria per essere di aiuto a questi ragazzi che, comunque, necessitano anche di essere seguiti da esperti del settore.
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