Internet Addiction

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INTERNET ADDICTION: UN PROBLEMA SOLO DEGLI ADOLESCENTI?

“Sono in una sala d’aspetto. Ci sono diverse persone in attesa, alcune aspettano il referto di un esame, altre di essere visitate. Tutte attirano la mia attenzione, chi per un motivo chi per un altro. Eppure c’è chi passa inosservato. Una ragazza, seduta a pochi centimetri da me, è china con la testa sul suo cellulare, impegnata tra messaggi e social network. La mamma cerca un contatto con lei e, senza neanche tanto mascherare la sua rabbia e disapprovazione, le chiede se quello che stava facendo fosse proprio necessario.”

Situazioni di questo tipo sono frequenti intorno a noi, in modo particolare tra gli adolescenti. Sempre più spesso leggiamo notizie che ci informano sul rischio di dipendenza che un adolescente può sviluppare nei confronti dell’utilizzo del cellulare e di internet. Ma, ad essere interessati, sono davvero solamente gli adolescenti? Certo che no, anche se loro rappresentano una categoria a rischio.  Probabilmente i più giovani sono l’espressione più diretta di quello che, prima di tutto, è un comportamento che interessa la maggior parte degli adulti. Credo non sia possibile individuare chi per primo sia caduto nelle mani di questa nuova forma di dipendenza né intravedo l’utilità di addentrarsi in questo tipo di ricerca.

Ma quanto c’è di vero in quello che dicono i giornali e internet? Si parla davvero di dipendenza? E cosa possiamo fare per evitarlo senza apparire dei genitori extraterrestri per aver impedito l’utilizzo al proprio figlio delle nuove tecnologie ?

 

UN PO’ DI NUMERI…

Effettivamente quanto è presente internet nella vita dei più giovani? Secondo una ricerca dell’ISTAT riferita al 2015 il 92% dei ragazzi intervistati, compresi nella fascia d’età 15-17 anni, ha utilizzato internet nell’arco di un anno mentre il 73,4% lo ha usato tutti i giorni. I ragazzi di età superiore, tra i 18 e i 19 anni, non si discostano molto dai loro coetanei mostrando un utilizzo quotidiano di internet leggermente superiore (77,3%). Salendo d’età le percentuali scendono leggermente ma rimangono comunque entro l’85% per l’utilizzo di internet in un anno e del 64,5% per quello quotidiano.

Osservando questi dati non possiamo negare che le nuove tecnologie e internet sono ormai parte della loro, ma anche della nostra, quotidianità. A partire dal 2001 c’è stato un notevole incremento nel loro utilizzo, da parte di tutte le fasce d’età, a partire dai più giovani.

QUANDO SI PARLA DI VERA DIPENDENZA?

Facciamo un po’ di ordine.

 L’uso eccessivo della rete e la difficoltà a disconnettersi nonostante le conseguenze negative sulla vita offline è identificato con il termine Dipendenza da internet ( Internet Addiction disorder- IAD).

La presenza di Internet, disponibile ormai con estrema facilità sul posto di lavoro, nei luoghi pubblici e attraverso diversi dispositivi, come smartphone e tablet, ha sicuramente aumentato il tempo che ognuno di noi trascorre connesso alla rete.  Questo non vuol dire che siamo tutti abusatori e dipendenti di internet. In molti casi, infatti, il tempo trascorso in rete è produttivo e di svago. Ma come facciamo a valutare la qualità del tempo che trascorriamo in rete? C’è un numero di ore o di messaggi inviati che ci permette di individuare il limite tra un comportamento sano e uno patologico? Non esistono criteri così definiti ma ciò che rende l’utilizzo di internet una dipendenza è l’eccessivo uso a scapito del lavoro, dell’attività scolastica e delle relazioni sociali.

QUALI SONO I PRIMI SEGNALI?

Ci sono alcuni segnali che possono aiutarci a capire se l’utilizzo di internet sta diventando qualcosa di più che un semplice passatempo.

  • Perdere il senso del tempo online: si rimane connessi più a lungo di quanto previsto? Qualche minuto diventa qualche ora? Se si viene interrotti si reagisce con rabbia o irritazione?
  • Problemi nella gestione dei compiti, della casa o del lavoro: le attività scolastiche, gli impegni lavorativi o familiari passano in secondo piano? Ve ne dimenticate o li rimandate?
  • Isolamento dalla famiglia e dagli amici: diminuisce il tempo trascorso con la propria famiglia o con gli amici? C’è il pensiero che le amicizie online possano comprenderci meglio rispetto a quelle reali?
  • Senso di colpa legato all’uso di internet: quando gli altri sottolineano il tempo trascorso in internet si reagisce con irritazione? Si tende a nascondere la vera quantità di tempo trascorso online?
  • Euforia durante l’uso di internet: quando si è connessi si prova un piacevole senso di euforia? L’utilizzo di internet serve come valvola di sfogo quando si è arrabbiati, tristi oppure soli? Non riesci a ridurre il tempo trascorso in internet?

 

COSA POSSO FARE?

Il primo passo è riconoscere a se stessi di stare attuando questi comportamenti e cominciare a modificare alcune abitudini quotidiane, senza però dimenticare che esistono servizi e persone qualificate che possono fornire un supporto adeguato. L’uso eccessivo di internet  può essere un modo per rispondere a problemi emotivi sottostanti, quali ansia, depressione, stress o sentimenti di rabbia accumulati nel tempo. In questi casi il web è utilizzato come un “analgesico” per sentire meno il disagio e cercare di uscirne.  La dipendenza da internet, quindi, sembra connessa ad altri fattori psicopatologici che spingono la persona a cercare una soluzione immediata e “più breve”. Il web sembra rispondere proprio a questa esigenza fornendo, però, solo un’apparente soluzione ai nostri problemi.

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Mi Presento: sono “l’Attacco di Panico!”

panicoSecondo la definizione del DSM – V (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali), un attacco di panico consiste nella “comparsa improvvisa di paura o disagio intenso(….)”.

L’attacco di panico non dà il tempo alla persona di “prepararsi” a reagire, né tanto meno entra nelle nostre vite bussando alla porta e presentandosi educatamente. È considerato come un “fulmine a ciel sereno” ed è per questo motivo che è utile imparare a conoscerlo e a capire come poterlo affrontare.

La prima domanda da fare è “Come si manifesta l’attacco di panico?”

  • Tachicardia: è il sintomo più frequente e quello che, a volte, fa anche più paura. La percezione del battito del nostro cuore, fortemente amplificato, spaventa e mette in allerta la persona alimentando tutti gli altri sintomi.
  • Dolore o fastidio al petto: sensazione simile a quella che caratterizza “l’angina pectoris” nella crisi cardiaca acuta. Ecco perché molte persone che soffrono di attacchi di panico arrivano in pronto soccorso spaventati che possa trattarsi di un infarto.
  • Sudorazione: la persona non è accaldata, è una sudorazione fredda. Nei momenti precedenti il manifestarsi del panico non ci sono stati sforzi che ne possano giustificare la presenza. Possono essere presenti anche brividi o vampate di calore.
  • Dispnea e sensazione di soffocamento: è importante sottolineare che è una sensazione, perché in realtà la persona non sta soffocando per davvero. La sensazione che si prova di non riuscire a respirare produce una respirazione forzata ed innaturale che fa credere di non riuscire ad introdurre sufficiente aria nei polmoni e, quindi, di soffocare.
  • Asfissia: molto simile al precedente con la differenza che si ha la sensazione che manchi l’aria nell’ambiente.
  • Tremori o formicolio: tremore fine (mani), tremore a grandi scosse (arti e corpo tremano in maniera intensa) e tremore interno (sensazione di tremore del cuore e dello stomaco). Il formicolio può interessare mani e bocca.
  •  Paura di perdere il controllo o di impazzire: questo sintomo provoca molta angoscia. La persona, se ha qualcuno vicino, chiede di tenerle la mano. Ma NON s’impazzisce per l’attacco di panico.

Una volta che abbiamo imparato a riconoscerlo, identificando i principali modi con cui si manifesta, saper fare la cosa giusta per fronteggiare l’emergenza di quei momenti è il prossimo passo.

 

“Che cosa devo fare?”

  •  SI: cosa fare quando arriva l’ attacco di panico

 

Allontanarsi dal luogo in cui è esploso l’attacco di panico. Non è necessario allontanarsi di molto, sono sufficienti anche pochi metri per poter stare meglio.

Cercare il fresco: la vampata di calore è uno dei sintomi che possono esserci durante un attacco di panico. E’ utile cercare del fresco aprendo le finestre, trovando un posto all’ombra o un piacevole soffio di vento.

Trovare una posizione comoda: appena possibile mettersi in una posizione in cui ci si possa sentire meglio e al sicuro. Evitare di mettersi sdraiati perché in questa posizione i sintomi possono peggiorare.

 

Chiedere aiuto: è utile quando l’angoscia è tanta e si ha paura di perdere il controllo. La presenza di un’altra persona a cui affidarsi fa sentire al sicuro. Se si è soli, è possibile identificare un oggetto positivo, un’immagine o un pensiero piacevole che possa distrarre da quel momento.

 

  • NO: cosa non fare quando arriva l’attacco di panico

Fingere: far finta che non sia successo nulla non farà altro che aumentare la tachicardia e peggiorare la situazione.

Lottare: gli attacchi di panico come arrivano, vanno via molto velocemente. Sono molto intensi ma la loro durata è breve. Non bisogna impegnarsi in una lotta per cercare di opporsi ma concedergli il tempo necessario. Fermarsi e osservare ciò che succede.

Scappare: l’impulso è di muoversi e correre in modo agitato, come per liberarsi da qualcosa di estremamente pericoloso. Il pericolo è di esporsi al rischio d’incidenti o cadute.

Forzare la respirazione: la sensazione di mancanza d’aria può indurre ad aumentare la frequenza del respiro per cercare di introdurne la quantità necessaria. Questo aumenta la sensazione di non riuscire a respirare, incrementando anche l’angoscia. Si deve cercare di mantenere un respiro il più possibile normale e regolare.

Superata la fase di allarme, rientrati i sintomi, il senso di paura, di terrore e la sensazione di soffocamento molte persone non danno all’attacco di panico l’importanza che merita.

Il panico è un campanello di allarme che non deve essere ignorato, sperando che non si ripresenti più. Una volta che abbiamo imparato a conoscerlo e a fronteggiare i sintomi, il passo successivo è quello di capirne le cause. In questo delicato compito lo psicoterapeuta potrà guidarci nel percorso di consapevolezza e guarigione.

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Diventare genitori: un cambiamento a più livelli


diventare genitoriLa decisione di intraprendere la strada della maternità è preceduta, nella maggior parte dei casi, dallo svilupparsi di un desiderio, da parte della coppia, che cresce nel tempo, alimentandosi di aspettative per il futuro neonato e per la nuova famiglia che sta per nascere.

Quindi, diventare genitori è per lo più un’esperienza naturale e spontanea, anche se non sempre priva di conflitti. La nascita di un figlio può essere per molte donne il coronamento di un sogno che, a volte, viene raggiunto solo dopo un lungo e non sempre facile percorso. In questi casi il desiderio di maternità, che nella donna può anche intrecciarsi e confondersi con quello per la gravidanza, influenza e a volte complica le dinamiche tra i futuri genitori.

Senza dimenticare la gioia che deriva dalla nascita di un bambino desiderato e “pensato”, ricordando che ciò non mette in crisi una coppia ben strutturata, è bene presentare i problemi che possono manifestarsi con l’arrivo di un figlio. Le difficoltà possono farsi sentire in diversi aspetti della vita coniugale. Alcune coppie riescono a riorganizzare la propria vita ed approfondire la relazione di coppia attribuendole ulteriore significato, ma c’è anche chi non ce la fa.

Innanzitutto la nascita di un figlio rappresenta l’arrivo di un nuovo elemento che s’inserisce all’interno di una configurazione relazionale già prestabilita. Affinché il bambino possa trovare il suo posto nella coppia genitoriale, è necessario che le relazioni preesistenti vengano ridefinite e modificate . Il nucleo familiare si trasforma, passando da “diade” a “triade”, mentre la coppia da “coniugale” diventa “genitoriale”.  Anche qui è necessaria una certa flessibilità dei ruoli e delle relazioni, per evitare che una condizione non escluda l’altra. Entrambi i partner andranno incontro ad una ridefinizione del loro ruolo e della loro identità: non più solo coniugi ma anche genitori, in un’ottica di flessibilità e di interdipendenza. Tutto ciò può essere complesso se effettuiamo questo tipo di analisi, ma per fortuna è un processo che, se non incontra ostacoli, avverrà in completa autonomia e per lo più inconsapevolmente.

Nel caso in cui, invece, s’incontrano delle difficoltà, il processo può interrompersi e creare dei problemi di adattamento alla nuova situazione. Nella classificazione del PDM (manuale diagnostico psicodinamico) il disturbo dell’adattamento si manifesta con risposte di tipo disadattivo a fattori di stress psicologico come può essere una malattia, cambiamento sul lavoro, la nascita di un figlio. Gli stati affettivi sperimentati variano a seconda delle persone ma, generalmente, di sottofondo c’è un vago disagio che deriva dalla sensazione di essere in un momento di cambiamento o di passaggio. Possono presentarsi  comportamenti  caratterizzati da un’attenzione eccessiva che si focalizza sul fattore che provoca stress o un’evitamento difensivo di ciò che rappresentano i cambiamenti che la persona deve affrontare. Ciò che è a rischio, nella situazione in cui ci si trova ad affrontare la nascita di un figlio, è innanzitutto la capacità di accoglimento che può subire un’interferenza e concretizzarsi nella difficoltà a prendersi cura del neonato, anche semplicemente a livello fisico. Successivamente può venire a mancare quell’ atteggiamento materno di ricettività, identificato con il termine tecnico di rêverie, che permette al neonato di comunicare i propri stati interni, mentre alla madre di rispondere adeguatamente. È chiaro che, soprattutto nei primi mesi, è la madre che corre il rischio maggiore di non adattarsi a questa nuova situazione.  E’ impegnata notevolmente nelle prime cure e da lei dipende la sopravvivenza del neonato.

I problemi che possono insorgere con la nascita di un figlio non riguardano solo aspetti legati all’ambiente esterno o alla ridefinizione dei ruoli. È molto importante anche l’esperienza interna legata al “diventare genitori”. Innanzitutto la nascita di un figlio porta con sé sentimenti di perdita, sia di tipo reale che immaginario. Il senso di perdita o di rinuncia interessa aspetti della propria vita come il sentirsi esclusivamente figli, moglie o marito e possono portare con sé sentimenti e angosce depressive legate a questo cambiamento. Sia la madre che il padre possono entrare in competizione con le proprie figure genitoriali che possono riattivare problemi e difficoltà legate a dinamiche del passato. Tutti questi aspetti, insieme ad un senso di insicurezza interiore, possono ostacolare ed impedire la piena adesione al nuovo ruolo. Diventare genitori, che richiede un complesso lavoro psicologico, è solo l’inizio della crescita e della trasformazione continua, sia delle dinamiche familiari ma anche, e soprattutto, personali.

Così come tutto ciò che è vita cambia nel tempo, anche il ruolo di genitore nasce, cresce e si trasforma.

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Psicologo: Istruzioni per l’uso

Chi è?psicologo

Lo psicologo è un laureato in psicologia, abilitato all’esercizio della professione e quindi iscritto ad un ordine regionale degli psicologi.

Come lavora?

 “La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.” (Art. 1 — Legge 56/89)

Intorno alla figura dello psicologo si crea sempre molta curiosità rispetto al modo in cui interviene nell’aiutare le persone. Ciò che accomuna i diversi professionisti dei diversi orientamenti teorici è sicuramente l’uso dell’ascolto e del dialogo, che rappresentano i principali strumenti di cura.

L’ascolto che s’incontrerà nello studio di uno psicologo sarà, però, ben diverso da quello che possiamo sperimentare durante una chiacchierata con un amico. Infatti, sarà un ascolto disciplinato che vedrà lo psicologo in una posizione di piena ricettività per dare la maggiore libertà e spazio possibile ai bisogni e alle necessità del paziente.

La funzione del dialogo, strettamente connessa a quella dell’ascolto, è innanzitutto di dare la possibilità di esprimere fatti e situazioni a cui, in passato, non è stata data voce. I pazienti con il tempo impareranno che attraverso il dialogo e l’ascolto potranno identificare degli stati emotivi disturbanti o troppo generalizzati fino a riuscire ad integrarli nella consapevolezza, riuscendo a dare forma organizzata al caos in cui si trovavano.

 Quindi lo psicologo è un professionista della salute che si avvale di strumenti, metodi e tecniche specifiche per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo o della comunità.

Cosa fa?

  • Interventi di prevenzione e diagnosi;
  • Interviene nei casi di disturbo d’ansia, attacchi di panico, fobie, blocchi emotivi e depressione;
  • Interventi di sostegno per affrontare momenti difficili della propria vita (perdita del lavoro, traumi, lutti, separazioni, ecc );
  • Interventi rivolti a comprendere e risolvere situazioni in cui le caratteristiche personali e la relazione con gli altri possono determinare disagio e difficoltà;
  • Favorisce la crescita personale e psicologica: rafforzare l’autostima, migliorare la comunicazione e la propria qualità di vita, favorire l’espressione e comprensione dei propri vissuti emotivi;
  • Aiuta a migliorare il benessere psicofisico: gestione e riduzione dello stress;
  • Interviene per modificare abitudini di vita (fumo, alcool, peso, ecc…);

Gli interventi dello psicologo sono rivolti al singolo individuo, a coppie, famiglie o comunità. Ad esso si possono rivolgere sia adulti che adolescenti e bambini.

Quando chiedere aiuto?

Il momento in cui è necessario rivolgersi ad uno psicologo varia a seconda delle persone e del momento di vita in cui si trova. È utile contattare uno psicologo quando si avverte una situazione di disagio o difficoltà che non si riesce a risolvere e che inizia ad interferire con il normale e/o desiderato svolgimento delle  propri attività quotidiani (scolastiche, lavorative, personali o sociali).

È importante non aspettare troppo perché con il tempo le difficoltà possono determinare un senso di isolamento che rende ancora più difficile trovare una soluzione ai propri problemi. Il primo passo è chiedere aiuto e non rimanere da soli, là dove è diventato troppo difficile risolvere i problemi.

Rivolgersi ad uno psicologo, quindi, significa trovare un alleato con cui osservare insieme la propria vita e le proprie difficoltà imparando e sperimentando all’interno di uno spazio protetto, nuove strategie di risoluzione del problema.

Lo psicologo sarà la guida che ci permetterà di non “andare alla deriva”, che rimarrà al nostro fianco sulla nostra stessa strada intervenendo per riportarci sulla giusta rotta.

 Lo psicologo è parte del cambiamento ma non quanto lo sarà la persona che ne richiederà l’aiuto. Tutto questo attraverso un ascolto empatico e non giudicante.

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Vacanze: il rischio di rimanere sempre “connessi”

vacanzeAspettiamo le vacanze estive a lungo per poterci liberare dallo stress, dalle preoccupazioni e dai problemi accumulati durante tutto l’anno.
Il desiderio di “staccare la spina” è forte, ma siamo davvero capaci di farlo?

E’ frequente vedere sotto l’ombrellone persone che controllano mail di lavoro, che rimangono “collegati” con l’ufficio e con quello che succede o che rispondono ai clienti, magari, a diversi chilometri di distanza. Grazie ai social network o ad applicazioni come WhatAapp siamo costantemente connessi con il lavoro, con conoscenti, amici e parenti: praticamente in qualunque parte del mondo è come se fossimo sempre a casa.

Rimaniamo, quindi, ancorati al nostro lavoro ma anche alla nostra quotidianità, portandoci dietro il peso delle preoccupazioni.

Se prestiamo attenzione al termine “vacanza”, che deriva dal latino vacantia e significa “essere vuoto, libero”, possiamo notare come questo significato ha perso di significato ai giorni nostri. Sono sempre meno i momenti in cui siamo “liberi” o in una condizione in cui non siamo impegnati in qualche attività, di lavoro o ricreativa. I figli delle ultime generazioni – i cosiddetti nativi digitali – ormai vivono una vita piena, dove gli impegni scolastici si incastrano a quelli ricreativi perdendo però, in questo modo, il loro valore di svago e recupero di energie sia fisiche che psichiche. I negozi e le attività commerciali sono onnipresenti, cancellando dalla settimana l’unico giorno che dovrebbe essere riservato al riposo, sia del venditore che del cliente.

Ma ritorniamo alle vacanze: percorriamo chilometri per allontanarci da una quotidianità stressante e pressante e per trovare quella tanto desiderata tranquillità. Eppure quando finalmente l’abbiamo trovata, e raggiunta, cerchiamo di riempirla ripristinando un collegamento con ciò che abbiamo lasciato a casa.
Quali sono i rischi? Innanzitutto un sovraccarico: immaginate un computer che rimane sempre acceso, a lungo, senza mai spegnerlo. Per quanto sia stato progettato per lunghi periodi di attività con il tempo andrà incontro a problemi di funzionamento. Ciò che succede nell’uomo si registra sotto forma di aumento dei livelli di stress, una diminuzione sempre maggiore di resistenza alle frustrazioni, nervosismo e stanchezza generalizzata.

Cosa si può fare? Rendete effettiva la distanza fisica che mettete tra voi e la vostra quotidianità, limitando il più possibile tutto ciò che vi richiama la vostra casa e il vostro lavoro. Ci sarà tempo di postare su Facebook i vostri ricordi: vivete in prima persona le esperienze, per poi condividerle successivamente con chi vorrete.

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EVOLUZIONE DEL DISTURBO MENTALE

EVOLUZIONE DEL DISTURBO MENTALE
Dai manicomi ad oggi

Oltre la malattia mentaleLa malattia mentale spaventa ancora molte persone e richiama alla mente immagini di persone gravemente disturbate, alle quali è stato affidato ingiustamente il termine generico di “matti”. La malattia mentale, nelle sue diverse forme, racchiude al suo interno un disagio che, se accuratamente trattato, permette alla persona di ritrovare il proprio equilibrio. Evidentemente è ancora troppo vicino il ricordo dei manicomi in Italia e dell’immaginario collettivo che si è aggirato per anni intorno ad essi. E’ bene ricordare, però, i passi in avanti fatti con l’emanazione della Legge Basaglia del 1978 che ha sancito la chiusura dei manicomi. Con la chiusura di queste strutture le persone che mostravano un disagio particolarmente grave hanno avuto riconosciuto i loro diritti e un livello nella qualità della vita più adeguato grazie ad una rete di strutture specialistiche che operano a livello territoriale.

Non dobbiamo dimenticare che la malattia mentale è un termine che racchiude una grande varietà di sofferenze, da quella più gravi a quelle più lievi. Oggi sono presenti sul territorio diverse strutture che sono in grado di prendersi cura di persone con un disagio mentale particolarmente grave, dalla diagnosi fino alla riabilitazione. Il percorso è sicuramente lungo e può presentare ostacoli ma è giusto sottolineare la strada fatta finora a partire da quando l’emarginazione e la stigmatizzazione erano gli unici strumenti utilizzati per trattare questi disturbi.

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TRAINING AUTOGENO: UNO STRUMENTO PER RITROVARE L’EQUILIBRIO

Equilibrio

Ritrovare l’equilibrio

Da diverso tempo, ormai, la consapevolezza del nostro corpo perde sempre più importanza, schiacciata da una società in cui non c’è il tempo per soffermarsi ed osservare ciò che ci circonda. Ancora meno tempo viene dedicato ad osservare noi stessi, il modo in cui ci poniamo nella realtà e i segnali che il nostro corpo ci invia. Questo aspetto associato a condizioni di vita sempre più stressanti ed impegnative danno luogo ad uno squilibrio nelle principali funzioni del nostro corpo e provocano diversi tipi di problematiche: ansia, cefalee tensive, disturbi del sonno, colon irritabile, tachicardie.

Questi tipi di disturbi, definiti “psicovegetativi” in assenza di una chiara diagnosi medica, sono spesso ignorati o trattati solo da un punto di vista sintomatologico e determinano uno stile di vita non sano. Oltre al dolore e al fastidio che questi disturbi provocano a livello fisico hanno anche un’influenza a livello psicologico. Infatti, diventando spesso cronici, sono vissuti a lungo termine come qualcosa di invadente che accompagna la persona, determinando un aumento dello stress. É necessario, quindi, imparare ad ascoltare il proprio corpo e i segnali che esso ci invia e incominciare a prendersene cura laddove non è possibile individuare una chiara causa organica del disturbo. Ciò è possibile tramite l’apprendimento della tecnica di rilassamento del training autogeno. Quello che si otterrà sarà una maggiore consapevolezza di sè stessi, sia fisica che emotiva e uno stile di vita più sano.

Il Training autogeno è una tecnica di rilassamento ideata  negli anni trenta da Johannes Einrich Schultz, psichiatra tedesco. I primi studi effettuati da Schultz hanno riguardato l’ipnosi che ha influenzato i suoi studi successivi ma dalla quale poi si è lentamente distaccato. Il Training autogeno è usato in ambito clinico per il controllo dello stress, nella gestione delle emozioni e nella malattie di origine psicosomatica.

Gli esercizi tendono ad indurre a livello corporeo uno stato di rilassamento e di quiete che ha degli effetti diretti sul corpo (distensione muscolare, vasodilatazione, frequenza cardiaca e respiro regolare) e sulla psiche ( abbassamento livelli di ansia, riduzione  delle risposte emotive).  In questo modo permette di ritrovare il naturale equilibrio tra la mente e il corpo.

Le modifiche fisiologiche che si producono con un buon allenamento hanno carattere di stabilità e costanza nel tempo. Questo è ciò che differenzia il training autogeno dalla suggestione ipnotica che non presenta questo carattere di stabilità.

Nella pratica psicoterapeutica il Training autogeno viene utilizzato laddove è centrale l’aspetto emozionale. Questa tecnica è in grado, infatti, di favorire “associazioni” significative rispetto ad eventi che  anche se sono emotivamente importanti vengono dimenticati o “rimossi”. Arrivare a recuperare questi eventi è fondamentale in alcuni casi per ottenere uno sblocco emotivo della personalità e per procedere, quindi, con il percorso terapeutico.

Infine questa tecnica è utilizzata anche in contesti non clinici, come ad esempio nel campo dello sport. Gli atleti lo utilizzano per recuperare le energie, aumentare la concentrazione pre-gara allo scopo di ottenere una performance migliore.

Diversamente da quello che potrebbe sembrare, il rilassamento è solo uno dei molteplici effetti che il training autogeno garantisce con un buon allenamento. Chi pratica con costanza e allenamento questa tecnica otterrà dei diversi benefici e uno stile di vita più sano.

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PAURA: E’ UTILE O NO? La funzione di segnalatore

pauraPossiamo definire la paura come “uno stato emotivo che consiste in insicurezza, smarrimento e ansia di fronte ad una cosa o a un fatto che sia o si creda dannoso”.

Questa definizione presa dal dizionario descrive solo ciò che la paura provoca nell’uomo, tralasciando la sua funzione principale: quella di segnalatore. Ma che cosa segnala la paura?

La paura, insieme alla rabbia, costituisce secondo la psicologia dei bisogni umani, la base dei segnalatori di sicurezza. In particolare la paura segnala la presenza di una minaccia, abbastanza vicina a noi, che potrebbe rivelarsi un pericolo o un ostacolo per la soddisfazione di un bisogno. Qundi la paura permette di segnalare tutti gli stimoli, le situazioni o le persone che sono ritenute fonte di pericolo e permette di attivare comportamenti di risposta e difesa che possono essere identificati nel fuggire, nel combattere o nel fingersi morto.

Il segnale della paura ha permesso da sempre all’uomo, e continua tutt’ora a farlo, di conoscere il proprio ambiente di vita mantenendosi in un’area di sicurezza e, soprattutto, di adattarsi ad esso. Ma per poter apprendere dalle proprie paure e trovare una strategia che ci permetta di affrontare una situazione è necessario riconoscerle, accettarle e condividerle con gli altri. Tutto ciò continua ancora oggi a non essere fatto, mentre si persevera ad adottare un comportamento che tende a nasconderle ed evitarle.

Un uomo che nasconderà al mondo, ma soprattutto a sè stesso, le proprie paure alla fine sarà comandato da esse e finirà che esse guideranno la sua vita.

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Dallo Psicologo? No!

Chi è lo psicologo e come ci può aiutare?

Viviamo in un’epoca in cui abbiamo a disposizione diversi strumenti e possibilità per curare il nostro fisico. Ci affidiamo ai medici con tranquillità e sicurezza, fiduciosi di poter guarire e stare meglio. Questo, però, non accade così facilmente per quanto riguarda la cura della nostra mente. Non sembra così scontato e accettato che anche la mente, così come il nostro corpo, si possa “ammalare”. Corriamo in farmacia o dal dottore per un semplice raffreddore ma quando, per esempio, il campanello dell’ansia si fa sentire lo ignoriamo e continuiamo la nostra vita senza ascoltarlo.

Affidarsi ad uno psicologo è ancora difficile e avviene, spesso, in completa solitudine. Non si condivide con piacere questa esperienza portando così la persona, che probabilmente già si sente sola, ad esserlo ancora di più.

Spesso accade che quando si riesce ad affidarsi ad uno psicologo per affrontare le proprie difficoltà si scopre in questo percorso di cura anche una possibilità di crescita e di arricchimento della propria personalità.

Rivolgersi ad uno psicologo significa, quindi, trovare un alleato con cui osservare insieme la propria vita e le proprie difficoltà imparando e sperimentando, all’interno dello spazio protetto dello studio, nuove strategie di risoluzione del problema. Lo psicologo sarà la guida che ci permetterà di non “andare alla deriva”, che rimarrà al nostro fianco sulla nostra stessa strada intervenendo per riportarci sulla giusta rotta. Lo psicologo è parte del cambiamento ma non quanto lo sarà la persona che ne richiederà l’aiuto. Tutto questo attraverso un ascolto empatico e non giudicante.

Nessun problema può essere risolto congelandolo
(Winston Churchill)

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Il Dolore dell’Animo ed il Dolore Fisico

Il segnale del dolore svolge, per l’uomo, l’importante ruolo di aiutarlo ad individuare ed evitare situazioni pericolose o fastidiose e  di supportarlo nell’affrontare e superare situazioni in cui si è costretti a vivere: abbandoni, perdite o sventure che accompagnino la vita di una persona.

Negli ultimi anni la società ha sempre più allontanato il dolore dalla nostra percezione  anche se  ha continuato a proporlo sotto forma di dramma- spettacolo. È possibile trovare diverse trasmissioni televisive che propongono storie di drammi familiari fin nei minimi particolari, film violenti e innumerevoli immagini di guerra. Ma il dolore spettacolarizzato non ha nulla a che vedere con il dolore reale che ciascuno di noi può vivere in seguito alla perdita del lavoro, di un divorzio o a causa della perdita di una persona cara.

Infatti anche se continuamente sottoposti ad immagini dolorose noi siamo portati a vivere il nostro dolore in solitudine e a condividerlo sempre di meno con le altre persone.

Si cerca, quindi, di evitare e di attutire tutte quelle situazioni che procurerebbero inevitabilmente dolore all’animo. In realtà stiamo crescendo in una sorta di anestesia emozionale dove la lontananza dalle emozioni diventa sempre maggiore. E la conseguenza di tutto ciò è che stiamo perdendo la capacità di esprimere ciò che proviamo.

Nella nostra società, in cui regna il mito della gioventù, della salute fisica e psicologica, non c’è posto per il dolore. Non ci soffermiamo più neanche ad ascoltare il nostro corpo, le sensazioni che percepisce né le emozioni che la mente prova, per paura di entrare in contatto con qualche nostra parte sofferente a cui non riusciremmo a dar voce.

La dimostrazione di ciò è la comunicazione di oggi, effettuata ormai prevalentemente tramite strumenti informatici che ci proteggono, tramite uno schermo, dal contatto con l’altro con cui abbiamo una relazione, in realtà, fittizia.

E così la sofferenza sia del corpo che della mente viene allontanata per non mettere in crisi i modelli di perfezione e salute proposti dalla società. La sofferenza fisica viene accettata finchè permette la realizzazione degli ideali esteriori della società mentre la sofferenza dell’anima viene sempre meno accettata e, di conseguenza, allontanata.

Basti pensare alla mancanza della figura dello psicologo in strutture ospedaliere  dove il dolore dell’anima si intreccia a quello fisico o nelle scuole, che a partire dalla primaria fino ai primi anni delle superiori occupa uno dei periodi più delicati e ricchi di trasformazione personale. Alla sofferenza dell’animo non vengono, così, dedicate le stesse cure che ad oggi vengono riservate alla cura del corpo. E’ ancora troppo lontana l’antica concezione dell’unità corpo-psiche, affermata già ai tempi di Aristotele.

Ma sempre di più sono le discipline come il training autogeno che cercano di ripristinare il naturale equilibrio del corpo e il contatto con la mente. L’unità del corpo con la mente ci permetterà di vivere secondo i naturali equilibri e di entrare anche in contatto con noi stessi permettendo una conoscenza più approfondita del nostro animo. In questo modo impareremo a  rallentare, ad ascoltarci e ad ascoltare anche il dolore per poterlo così affrontare nel modo migliore.

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